Venerdì scorso sono salito a piedi a Casso.
Il bus mi ha lasciato giù al bivio e ho deciso di coprire a piedi l’ultimo tratto di strada. Se da un lato c’era solo il bisogno di sgranchire le gambe dopo il viaggio, dall’altro i passi in salita hanno rivelato un po’ alla volta un punto di vista a me sconosciuto sulla frana del Toc. L’avevo vista, da ragazzino, dalla passerella sulla Diga e poi altre volte lungo la strada che la costeggia. La lenta ascesa al borgo di Casso, invece, mi ha permesso di cogliere con lo sguardo l’entità e la quantità dell’effetto trasformativo subito dal paesaggio. La consapevolezza si è fatta più nitida e acuminata appena sono entrato nel Nuovo Spazio di Casso, dove l’architettura aiuta e accompagna l’occhio umano a penetrare il senso del panorama.
Questa è stata un’esperienza molto importante perché mi consente, dopo circa due anni di visite, di osservare sotto una nuova luce la Colonia dell’ex Villaggio Eni di Borca di Cadore.
La Colonia è uno spazio che mi ha da subito messo in difficoltà: innanzitutto è enorme, freddo, tetro e inospitale per la logistica di un lavoro di ricerca compiuto da un artista singolo. L’ho visitata svariate volte, e sempre mi ci sono perso, sia per il dedalo dei suoi corridoi e stanze, sia con la mente che senza soluzione cercava un’idea, una visione, da nutrire.
Io, il mio studio già ce l’ho a Venezia, e se concepisco un progetto da realizzare “in trasferta”, non ho bisogno di un altro studio, come invece, con altri presupposti, è sembrata una scelta naturale per altri artisti che in Colonia si sono ricavati spazi di lavoro permanenti.
Ho sempre immaginato il mio intervento in Colonia come qualcosa di puntuale, circoscritto nel tempo, che assorba e digerisca lo spazio, ma che non lasci tracce, almeno al suo interno.
In Colonia ho sempre cercato, come è abitudine nella mia pratica, visioni e possibilità nei frammenti, in pezzi di architetture che mi attraevano per curve e slanci ambiziosi; nel fascino per alcuni oggetti logorati, nelle zone periferiche.
Visitare lo Spazio di Casso ha invertito il mio approccio alla Colonia.
Al contrario di questa, è un punto saldo nel paesaggio; lo accentra e lo produce allo stesso tempo con forza e precisione. Lo immagino come un arpione piantato nella roccia. Non lascia via di scampo, quasi costringe, in modo fin troppo diretto, l’occhio in direzione del vero senso del paesaggio.
Se quindi in precedenza ho cercato stimoli come spiando da una fessura, ora entro in Colonia a Borca con gli occhi spalancati e servendomi delle grandi vetrate dell’Aula Magna per guardare il Pelmo.
Il cuore (o il cervello?) della Colonia (e forse del Villaggio Eni?) mi serve dunque per capire come questo spazio modula e incanala il mio sguardo, modellando e costruendo assieme a me il paesaggio.
Dopo aver scoperto nell’Aula Magna uno spazio accentrante simile a quello di Casso, ora, da pittore, mi interrogo su come questo luogo, e la luce sui generis che veicola, possa fungere da strumento nella mia pratica artistica.
Francesco Zanatta, 13 agosto 2020