sguardo di Fiorella Fontana

Nel mio procedere artistico ciò che mi circonda lo considero come parte di un Tutto. Una moltitudine di elementi che vanno a formare l’Uno. Una visione panica nella quale microcosmo e macrocosmo si fondono. L’uomo in tale visione rientra in contatto con la sua parte più istintuale e arcaica, recupera il linguaggio del simbolo e dell’archetipo. Lo spazio nel quale vado a intervenire fa parte di questo tutto organico portandomi spesso a riflessioni site-specific. Visitando la colonia di Borca di Cadore la sospensione temporale si percepisce molto, e la presenza di oggetti originali sembra voler enfatizzare la dicotomia di un luogo fisicamente esistente ma spogliato di una funzione. Colpisce come il bosco e la natura circostante stiano interagendo con la struttura quasi a volerla divorare. Mi piacerebbe inserire queste riflessioni all’interno di un discorso specifico sul luogo, nel quale si possa unire temporalmente lo spazio di Borca con un altro ipotetico spazio, pensando a degli interventi essenziali come ad esempio calchi degli oggetti o interventi rispettosi sugli oggetti stessi, o completamenti strutturali (finestre in vetro rotte o porte), ponendo in questo modo ancor più enfasi sul rapporto presenza / assenza che tale luogo mi ha suscitato.

Fiorella Fontana


 

Riflessione generale e idee per Borca
gruppo d’azione (artisti): Mirko Canesi, Fiorella Fontana, Stefano Serusi e Marcello Tedesco.

Come un luogo può ri-vivere?
Essere un museo di sè stesso comporterebbe un totale riordino in senso quasi fotografico delle condizioni di un momento particolare della sua storia, la raccolta senza deragliamenti di immagini ed oggetti che lo riguardano, sino ad un innaturale ed invariabile congelamento in cui si impedirebbe al tempo di creare storie nuove. Si può pensarlo invece come archivio materiale ed immateriale da interpretare e a cui restituire sostanza di nuovi atti e di nuove narrazioni. Pensarlo come ideale teatro di gesti ed opere presentate che non possano essere che per quel luogo, sia perché prodotte in quel contesto che perché mostrate in un irripetibile accordo con l’architettura – e la natura - esistenti.
Visitando il Villaggio Eni, si ha un contatto diretto l’idea paternalistica che ha in passato animato persone come Enrico Mattei, quella cioè di unire la volontà ad un’etica che sintetizziamo oggi come contemporaneamente socialista e cristiana. Accanto ad uno Stato che vuole superare se stesso attraverso il progresso tecnologico, non è secondaria la necessità di concepire un ampio progetto umanistico di cui il benessere del lavoratore e l’educazione dei suoi figli -i futuri italiani- sia la bandiera.
Nel Villaggio Eni, sin dal suo disegno architettonico, è chiara l’idea di fornire ai bambini una colonia vicina alla natura e al tempo stesso protetta dai suoi pericoli, in cui accostare, attraverso un regolare esercizio quotidiano, lo studio alla riflessione religiosa.
Nel nostro sopralluogo, risulta ancora evidente la volontà tipicamente modernista di accostare al processo di formazione luminosità e qualità architettonica, sia negli spazi sia negli arredi che hanno subito riscosso il nostro interesse.
Tra questi i quattro confessionali, ritrovati privi di una funzione nel salone principale, con i quali è nata subito una forte empatia.
In essi abbiamo voluto trovare quell’approccio progettuale che vuole ritornare al singolo visto nella comunità; singolo non tanto soggiogato dalla paura del peccato quanto accettato nella sua individualità e che si accosta più che alla confessione alla confidenza che può diventare, anche e sopratutto, la confidenza di questo luogo verso chi nuovamente ne entra in contatto.
Lo Stato di Mattei – definito dagli stranieri l’Italiano più potente dopo Augusto – è uno Stato dove l’individuo, il suo pensiero, la sua necessità trova ascolto e dove le idee trovano spazio alla loro espressione.
Passare alcuni giorni in un’informale residenza al Villaggio Eni sarà per noi l’occasioni di legarci al luogo e di poter in qualche modo seguire la traccia di chi l’ha voluto e di chi l’ha popolato, cercando storie e tracce negli ambienti stessi, da restituire poi con interventi minimi nel luogo e studiandone modalità di riuso temporanee o ancora più ampie e su un piano progettuale utopico che partano proprio dalla sua leggenda.

 


Fiorella Fontana, Senza Titolo, 2013.
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