La Colonia dell’ ex Villaggio ENI è oggi un’architettura involontaria che chiede aiuto, che implora un intervento, quasi quanto una creatura fabbricata in laboratorio che non ha chiesto di esistere.
Schiava di sé stessa questa architettura applaude e gioisce alla vista degli artisti che vengono a trovarla, solleticandola quando passeggiano per i suoi lunghi corridoi e facendola sentire meno sola.
Ma nelle lunghe notti invernali, essa dialoga con la frana al suo fianco che lentamente la corteggia. E a volte vorrebbe diventare come essa, lentamente sgretolarsi e sparire, troppo lentamente per essere percepita dall’occhio umano ma inesorabilmente.
Di notte quando i massi più grandi compiono qualche capriola a causa della gravità, il Villaggio ENI ha un sussulto e spera che le piogge che esplodono come bombe sopra i 3000 metri piano piano scendano a valle e si portino via tutto.
Esattamente come fecero le bombe durante la seconda guerra mondiale.
L’arte che le da sollievo, l’arte che le cura le ferite. Gli interventi artistici sono visioni temporanee che installate al suo interno costituiscono i suoi sogni. In entrata lei sogna il suo ideatore, poi rimangono i ricordi dell’orso, dei vetri, delle coperte.
E come per una persona, che sognando aggrega ciò che conosce, questi sogni sono fatti dei materiali di cui lei è costituita: vetro, legno, docce, liquidi, polvere. Gli artisti che la abitano, le loro opere, stanno costruendo il suo immaginario.
La frana la ignora, ma la seduce.
Anch’ella diverrà ghiaia un giorno.
Alessandro Sambini, luglio 2017