Se rientro in colonia lo devo fare come al mio solito e cioè come un animale, penso, e per animale intendo un verme.
Così striscio lenta sotto ai rovi graffiandomi il collo, rischio di precipitare, quindi mi aggrappo ai sassi e pesto il muschio morbido.
Quando finalmente entro in sala accettazione protetta da muri in cemento, distendo la schiena ritrasformandomi in un’umana.
Tutti qui sono umani artisti, ma sono umani e artisti in modi diversi.
Raccontano storie in cui la natura non è mai naturale. Legano cavi elettrici e sbriciolano il carbone, si fanno strada spostando le erbe con lunghi bastoni come fanno i maghi, raccolgono e sezionano zolle di terra rigettate dal corpo saturo della montagna. Penso che qui devono vivere specie che crediamo estinte.
Muri colorati e perfettamente intatti per un momento mi fanno immaginare un passato di bambini e caramelle incollate in tasca, poi le scale mi portano giù.
Un soffitto giallo si sbuccia rivelando di esser stato azzurro.
Escrementi di martora si seccano sul pavimento e una falena si schianta addosso a un vetro.
Esco dalla colonia e tra i rovi torno verme.
Vicino, incastonato nel muschio come un gioiello c’è un osso cavo: acerbo e antico, ospita degli
insetti che lo stanno riportando in vita.
Non ho trovato quelle specie forse estinte, ma nell’osso vedo la colonia, abitata da piante, vermi e funghi, e poi la montagna, colonizzata da un animale che è assieme disegno, industria, cantiere artistico e vegetale.
Agnese Galiotto, agosto 2020