Sabato scorso, 5 settembre, millesimo open-studio di Progettoborca.
Mentre caricano, e caricano, le altre stazioni di DCTerraformazione2015, Casso e Vas, finalmente si son palesati degli alieni autentici, e alacri.
Sabato dunque, alle 14.00, per primi (si fa per dire: noi di qui non si esce più, eccoli i primi) alla Colonia sono entrati i ragazzi di Landscape Stories, workshop fotografico con Domingo Milella.
Alle 15.00, le fauci del titanico ente (mica un oggetto inanimato: una creatura che respira) si son spalancate, inghiottendo gli altri tutti.
Da luglio ad oggi, in Colonia sono passate oltre 2.300 persone, maguardaunpò.
E la Colonia è cambiata, e continua a cambiare, ogni giorno, ad ogni momento.
La Colonia è il fulcro ora del Villaggio vibratile, e Progettoborca è il cuore del processo di sommovimento (e Terraformazione) lanciato un anno fa.
Il costrutto del processo è contenuto tra questi due estremi contrapposti, alari: una diabolica cartolina 3D con due marmotte digrignanti, che paiono hamburger in pelliccia, e il disprezzo per ogni genere di subsidenza (si sale).
Nella Colonia non ci sono cornici, opere, mostre: non ci piacciono granchè, queste parolette secche di legno, meglio lo scudiscio all’oculomotore e l’inalveazione dei fluidi, finalmente sciolti.
Ci sono dunque manifestazioni, presenza, sguardi accesi, qui, epifanie e processi (questa è la parola), prima ancora che percorsi e racconti (i processi non han necessità di sceneggiarsi esplicitamente in un plot: i processi sono semplicemente idee in atto, e le idee in atto sono distantissime dagli stati di fatto e dagli altri àmbiti del pianeggiamento).
Spesso, infatti, anche a cagione di chi guarda, accade che un potenziale si cicatrizzi, necrotizzi, paralizzi, dentro a un’immagine statica, in una foto, diciamo, ovvero nella rappresentazione passiva di uno stato-cristallo: ma qui, stiamo dicendo, ci troviamo invece entro ad un moto, ed in ciò precisamente sta il carattere della processazione: processo è moto (e i moti reali sono però facoltà proprie di chi sa stare, e non si balocca con le fatue pretenziose dichiarazioni di mobilità – il genio nomade dell’andare, come scrive quel banale cannibale maleducato turista d’esotismi di chatwin, la moleskina all’impiegato, le mezze maniche dell’intelletto-pavone, la prosa di un troglodita).
Ma tornando alle cose, che poi la gente si distrae (quale gente? Ma non diciamo sempre che le uniche cose reali son le idee? E allora? Ma non si può esser sempre reali del tutto, no? Certo che si può: e si deve): siamo entrati tutti, e c’erano tutte queste cose-idee, accese, da vedere.
L’installazione di Domenico Antonio Mancini, per prima, nella grande sala del Padiglione AS, dal quale accediamo al corpo spaziale della Colonia in tremore.
Diciannove televisori Mivar, fermi da lustri, modificati e riattivati, su ognuno di essi campeggia il volto di Mattei, a parlar senza voce, in attesa che di questo lavoro installativo si compia la seconda fase, performativa, alla Gabbia dell’Orso, e lì si capirà infine il suo titolo: La versione di Misha. E, qui, la luce l’ha messa Antonio, il nostro luminatore elettrico (Idrotermolux).
Accanto a Domenico, Urban Hero, una delle sculture di Fabiano De Martin Topranin, non più sola in sala.
A terra, muso a muso con un pilastro (e lì fuori gli alberi-pilastro della giungla postuma dell’Antelao), una protoscultura (una traccia) pasoliniano-gellneriana di Aleksander Velišček.
Poi il serpente d’uomini ha preso a muoversi, salendo la prima rampa, per giungere alla zona della distribuzione vestiario, dove Silvia Hell ha performato, nelle Docce Femmine, l’installazione di Cleanland, forte e sottile, netta eppur segreta negli angoli, alcuni: la percettibilità non è un’oggettività, e la funzione invece di una fame esplorativa, senza la quale rimangono le partite alla televisione (cèrcati le luci, le ombre, le polveri, e piantala di cercare una dida, che al mondo siamo soli, gli apparati van costruiti). E anche qui, la luce l’ha portata Antonio, il nostro onnipresente luminatore elettrico.
Accanto a Cleanland, nelle Docce Maschi, ecco invece il primo frammento del Padiglione sloveno (Vanja Mervič, Luka Širok, Aleksander Velišček, Špela Volčic; con il patrocinio del Ministero della Cultura sloveno), che vien costruendosi, bello dislocato, atomizzato sparso. Si tratta dell’installazione Volume Moles, di Luka Širok. Fuidi cromatici a diverse densità sono stati trovati nei recessi della Colonia. Acque, succhi, sostanze oleose, grassi, bevande di 20 anni prima. Una serie di bicchieri e contenitori di vetro sono usciti pure dal ventre del mostro, che ogni giorno restituisce oggetti e resti, come un fortunale alla spiaggia. I liquidi nei contenitori, in strati-colore, dentro alle docce, nei porta-sapone. Calzando un guanto in lattice trovato all’infermeria, si prende una compressa effervescente (quel che ne resta: anch’essa è d’allora), e la si immerge nel liquido. Ed i fluidi, le masse-densità, si muovono, mescolano, in ebollizione lenta, ricordandoci scene marziane (Robinson Crusoe on Mars, visto ieri), e vulcanesimi extragalattici (nei film sci-fi del biennio ‘57/’58, in cui ci maceriamo ogni notte).
Poi, alle infermerie, prima dei tendaggi cromatici di Stefano Moras, per il quale nessun lacerto è mai un rifiuto, e sempre principio formal-nutritivo, ecco il pavimento riassemblato di Aran e Bruno, due degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Venezia che Marta Allegri ha portato a Borcia, col workshop Riparare, prendersi cura, e l’armadio smezzato dalla lama di Nicola, che ora torreggia intero sulla zattera composita dei legni ritrovati (pare Michael Johansson, ora gli facciamo vedere), tra un’icona e un cervo a presa, grazie dell’omaggio ragazzi, Cristopher sta bene e pur lui ringrazia.
Nella stanza attigua, Mattia Pajé si preparava al suo ciclo d’autoterraformazione, - A – n- T, 72 ore filate nella Colonia, giorno e notte, a sentire i suoni, sentire e percepire tutto quel che c’è nel grande corpo fermo, quando la gente non c’è.
Poi indietro, alle lavanderie, dove Andrea Visentini, al quale un figliodicagna ha rubato sei acquerelli bellissimi (ne abbiamo parlato già), per nulla sconfitto, ha architettato due nuove sculture, che ora finisce, e poco oltre, ancora alla lavanderie, l’asciugatrice originale, grazie a Sofia e a suo moroso, è diventata un torchio da stampa, e le teglie da pizza di allora son diventate le prime lastre incise, ed eccolo nato dunque, il laboratorio sperimentale di stampa e incisione di Borcia, e lo faremo girare per bene.
Risaliti quindi al refettorio, troviamo l’impianto di ricerca di Giorgio Barrera, Barbara De Ponti, Filippo Manzini, e il loro libro-prototipo d’artista: presto loro saran di nuovo qui dentro, a sviluppare. Le sedie non sono più, al loro posto dietro al vetro, e dove? Nell’Aula Magna, ben terraformata, cari ragazzi, ed era ora.
Nell’Aula Magna prodigiosa, infatti, sono accadute delle cose, diverse.
Talkonfession, la grande installazione di Michelangelo Penso, ha preso la scena per un giorno. I quattro confessionali lignei originali di Gellner, le ottanta sedie originali di Fantoni, le trenta interviste registrate, voci di intellettuali noti mescolate a quelle delle persone di Borca, a raccontare un’idea polifonica della Confessione, oltre alla storia (confessata) del rapporto tra questa comunità di Borca e questo Villaggio, delle alienità e delle in/comprensioni.
Inoltre: benedetto ancora Antonio, il nostro ormai imprescindibile luminatore elettrico: l’Aula Magna era spenta dal 1991, quando alla Colonia fu levata l’agibilità. Ma sabato la luce è venuta e si è sparsa ancora per l’aria di questa chigliacuta, rovesciata, scaldando i legni e i cementi al soffitto, e proiettandosi fuori dalla gigantesca vetrata De-stijl, per innaffiare la foresta, splendendo nelle notte fradicia e cupa.
(questo testo deve essere continuato: poi magari lo usiamo come foglio-mostra. questa medesima non è una nota dimenticata qui)