A gennaio 2017, Mimì Enna è venuta a Borca. Uno degli approcci possibili -forse l’unico- al Villaggio è questo: la prima volta, si viene per due/tre giorni, immersione totale contatto con le complessità dell’organismo gellneriano.
Poche ore dunque, un tempo (spazio-tempo) limitato, questo primo, rispetto alla dimensione colossale, ad ogni livello, del sito terribile.
In quelle poche ore, bisogna trovare il punto d’ingresso, la porta propria, inquadrar tutto, e cominciare a individuare i temi che si tratteranno poi. Un primo lavoro viene imbastito: spesso, esso risulterà in seguito solamente un abbozzo orientativo: ghiaccio rotto, processo avviato. L’approccio al sito non è semplice, necessita addirittura di una sorta di imprinting cognitivo, che precede la fase progettuale e realizzativa. Nei successivi periodi in Residenza, parti di questo ragionamento iniziale verranno integrate, sviluppate, ablate, abortite, rinnegate, sostituite, etcetera, nel processo di costruzione, del ragionamento e dell’opera.
Le sei immagini presentate qui sono una selezione di quelle realizzate da Mimì in quei giorni gelidi (-10, -20 gradi centigradi a Borcia: la Colonia un fiore di cristallo, sospeso al silenzio, radi crepitii e scatti dai legni e dai ferri: la struttura non si torce nella tenaglia nel freddo).
Le immagini sono il risultato di una proiezione: ambiente esterno, natura e paesaggio, vengono proiettati su alcuni oggetti ed arredi presenti in Colonia, sovrepponendosi ad essi: nella luce li vediamo attivati.
Un modo per cambiar l’aria a questo luogo, che non solo in virtù del gelo pare eterno, pare eterno.
To get some air.
Ed in effetti, ogni azione svolta su di esso, su di esso è impressa e rimane. E solo in apparenza la Colonia è indifferente, sovraumana. E non è vero affatto che ogni azione essa smorzi, ogni forma ed immagine divori o schiacci, ed anzi riteniamo che questa timorosa lettura pecettiva percoli da un mero parametro goemetrico, dai risibili ed accidentali rapporti spaziali, traversati acriticamente, intesi quantitativamente. Ma lo spazio qui è ben altri dai suoi volumi, e risulta evidente come la sua storia proceda sugli infiniti appoggi, come la sua massa non conosca pace, e comprenda ed inglobi l’alimento critico coerente. Da oltre mezzo secolo quei crepitii adattivi si diffondono per gli spazi: spazi in perenne proiezione – ascolto / manifestazione.
E dunque, la proiezione è dapprima la modalità di relazione normale che lo spazio carico instaura con sè stesso (autoespansione, accelerazione e contrazione, respirazione, pulsazione, tensione organica, convogliamento dei flussi) e con gli altri enti. In seguito, stiamo dicendo, la proiezione è la modalità di editazione propria degli impulsi di alcuni enti venuti: forse quelli che han saputo intendere la profindità dello spazio – inteso qualutativamente. Accede lo stesso al galeone abbandonato tra i flutti: dopo secoli, la nave fantasma esce ad un incanto dal mare di nebbia e trova il porto, oppure altre onde: mai si scioglie disgrega nell’acqua. E’ evidente qui, per chi può averne coscienza, un dato primo essenziale: lo spazio è un’esperienza, a Borca: la geometria nient’altro che il canone di un’emozione.
In quei tre giorni di gennaio, le proiezioni di Mimì si sono dunque sovrappopste alle autoproiezioni dello spazio della Colonia, perchè i flussi in convoglio non sono solo quelli delle arie gelide. Oggetti rianimati nella luce: elettrica, mescolata a quella naturale, insinuatasi come un liquido. E forse questa modalità richiamava e risaltava sè stessa in quel segmento, secondo progetto – manca solo la teloeologia del corpo gellneriano.
E infatti, anche Mattia Pajè, qui negli stessi giorni, ha utilizzato la proiezione, la modalità proiettiva. Nel suo caso (come in questo testo?), le immagini uscivano dalle teste degli uomini spaziali (estetica e psiche, alienità e terraformazioni) ancora per alimentare le bocche della Colonia.
Poche le particelle di polvere che hanno attraversato i fasci luminosi: come mai?
Foto: Mimì Enna