Sequenze dal Villaggio ENI – Borca di Cadore
L’affresco sembra più una disciplina da montagna, però si è fatto anche in pianura, al mare in città. A mio avviso il suo luogo ideale è la montagna, anche i pigmenti sembrano tritume di pietra di montagna, un affresco terminato ha i colori delle alture, delle vette. Tutto è fatto per appuntire la vista agli occhi, come le mani che si appigliano a una roccia e muscolano tutto il corpo. L’occhio che si appiglia a un affresco e muscola allo stesso modo tutto il corpo, è una spinta verso l’alto – l’alto di un alto o l’alto di un basso. Non è importante. Importante è la spinta ricevuta dagli occhi – ora di fronte ho le Dolomiti bellunesi.
Si guarda il paesaggio, ma qui si è dentro un paesaggio costruito dagli uomini, un paesaggio a disposizione della “comunità”. Una articolata costruzione voluta da Enrico Mattei per l’ENI su progetto di Edoardo Gellner.
Mi domando perché il mio Paese non ha avuto, almeno da quando sono nato, un altro Enrico Mattei? Perché anche io nel mio contemporaneo non posso annoverare uomini come Mattei e invece, ho alle spalle un vuoto e per ora innanzi un altro vuoto. Però sono felice di questo vuoto pneumatico, quest’assenza di uomini che hanno pensato alla “comunità”, questo vuoto mi rende sempre più responsabile. Ora vengo da Borca di Cadore, dal Villaggio ENI, un dono per le Dolomiti. Conobbi la storia di Enrico Mattei attraverso il film di Francesco Rosi, poi mi sono informato da solo. Mi interessano molto le personalità di Enrico Mattei e di Adriano Olivetti, per me due nuovi San Francesco per l’Italia. Quell’Italia che si confrontava al mondo e non l’Italia che mi tocca conoscere, quella che si confronta a un se stesso umiliante.
Guardare e essere in questo paesaggio obbliga al pensiero di “costruzione” per il bene comune, un pensiero che abito da sempre. Attraverso questa costruzione paesaggistica e agli occhi si porge lo scenario cruento di quanto aiuto ha bisogno il mio Paese.
Leonardo Sinisgalli il poeta ingegnere, in quest’esplorazione è il mio Virgilio, leggo i suoi scritti da vent’anni, da vent’anni di suo non viene pubblicato nulla, se non da piccole case editrici. Nel Villaggio ENI, Sinisgalli mi mostra come camminare attraverso le Arti Applicate, l’idea della “Fabbrica”, un impegno serio nei confronti dell’altro come “comunità”, tutto questo si trasforma in uno strumento di riflessione. Sono rarissimi gli autori che in Italia mi lasciano riflettere come sa fare lui. Da autore di “figure scritte”, sono predisposto naturalmente alla lettura di ogni passo, ogni dettaglio. Questo paesaggio è una orchestra dove ogni vita suonava lo strumento intonato alla propria esistenza. Il mio sguardo vuole essere la cassarmonica dove di nuovo tutti questi suoni si incontrano e dialogano tra una nota e l’altra nel “sacro” paesaggio dolomitico.
L’alto tetto dell’Aula Magna della Colonia, riempie un vuoto triangolare lasciato nel paesaggio dalle cime del monte Antelao, tra la realtà del paesaggio e la costruzione dell’architettura appare una strana clessidra. Il gesto della natura e il gesto dell’uomo, granelli di sabbia che scivolando da una parte all’altra del cono ci suonano il trasporto del tempo e il nostro necessario intervenire con il compito che ci vede agli ordini. Quel compito che dovrebbe anche con inevitabili sforzi farci scalare verso le cime di un mondo che sta gridando il bisogno di avere il nostro aiuto. Una nuova preghiera per un’altra vita.
Come la rondine che sfiora velocemente l’acqua per inumidirsi il petto e portare quell’acqua al nido per consolidare gli interstizi fatti di terra e erba, così i miei occhi hanno sfiorato questo “paesaggio-gesto” per consolidare il “fare”, quel “fare” che non vuole essere altro che un provvisorio nido d’ospitalità su terra.
Giuseppe Caccavale