Sguardo di Caterina Erica Shanta

 

Salgo sulla corriera che da Calalzo va a Borca di Cadore.
Chiedo all’autista se può fermarsi alla fermata Borca Agip, dove scenderò a breve.

Appena esco dal mezzo vedo la pompa di benzina dall’altra parte della strada. Mi guardo attorno.
Piove.
Accanto a me c’è un minimarket.

Cerco di capire dov’è la Colonia Eni, ma non riesco ad individuarla.
Ci sono altre case di montagna, irregolari, simili a quelle dei paesini che crescono lungo lo stradone principale che li attraversa – perchè “li c’è vita” – e poi si esauriscono tra la boscaglia o i campi.
Del Villaggio e della Colonia non rilevo traccia. Con gli occhi percorro i limiti di Borca di Cadore, i suoi boschi, cerco le architetture di Edoardo Gellner attorno a me.

Nulla.

Se il villaggio e la Colonia esistono nei dintorni, allora è evidente che il centro abitato non ne contempla l’esistenza, almeno per come si è costruito sino ad oggi.

Quando stavo a Matera spesso mi capitava di incontrare turisti, che in pieno centro abitato, mi chiedevano: “dove sono i Sassi di Matera?”. Nonostante i cartelli e le indicazioni stradali, chi veniva da fuori faceva fatica ad individuarli e non a torto. I Sassi, che corrispondono ad un paesino di migliaia di persone, sono rimasti abbandonati per quarant’anni e la vita si è spostata altrove. La città si è delocalizzata escludendo la zona antica dalla normale circolazione. Qualcuno parla di vergogna connessa ad una esistenza mutilata.

Un breve passaggio in macchina e – in realtà meno di un chilometro – arriviamo al cancello principale della Colonia Eni. Mi fermo di fronte per un attimo. C’è un solo edificio, ora adibito ad uffici, che un tempo era del custode. Mi guardo attorno convinta che l’intero complesso sia oltre il cancello, mi sforzo di vedere. Ancora nessuna traccia delle casette, le ville, la colonia.
Non si vede.
Solo fitta vegetazione di conifere a varie altezze, la pioggia che batte insistente e la strada in salita che è ormai un piccolo torrente.

Mi trovo a riflettere sulla possibilità che il progetto di Gellner sia solo una proiezione, un miraggio utopico sulla montagna, che inganna gli assetati nei deserti, come un fascio di luce accecante che ridisegna lo spazio deformandolo.
Ha la parvenza di un sogno non dato, celato sotto tonnellate di carta, conifere e polvere.

Illuminismo, ragione e modernità

La Colonia, dove venivano ospitati migliaia di bambini all’anno da tutta Italia fino al 1991, è la prima parte di una complessa struttura di corridoi, case, villette e capanne che si  arrampicano sulla montagna.
Essa si scopre con lentezza, con un cambio di punto di vista, anche solo per intravederla.
Corrisponde ad una rotazione del solido.
Ma per attraversarla la rotazione non basta, poiché non è permessa la visione d’insieme, è difficile quando ci si trova al suo interno.

Il labirinto è una struttura logica le cui linee, che smistano i percorsi, servono paradossalmente a creare più spazio di quello disponibile. E’ una sensazione durevole che resta anche dopo aver conosciuto la struttura del labirinto e le sue soluzioni. Perdersi diventa un gioco e non solo sopravvivenza. Improvvisamente immersi al suo interno, l’ambiente diviene una grande scenografia dove a fatica si distinguono i vari gradi di finzione.

Cosa ricordi di questo luogo?
Un film? Una cartolina? Un sogno?
Un racconto che ti è stato fatto?
Cosa hai vissuto li dentro?
Cosa hai cercato nella montagna quando hai rovistato tra le macerie, i detriti, le porte di legno sciolte dalla neve, i materassi ammassati e schiacciati contro le vetrate?

Caterina Erica Shanta, aprile 2018

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