Una formica in cielo. Uno dei disegni-sorgente.
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Una formica in cielo
di Giovanna Bonenti e Fabio De Meo
Chiesa di Nostra Signora del Cadore
27/29 ottobre 2023
Dalle 10.00 alle 18.00
*la mostra è stata inaugurata durante l’Openstudio PULSAR, ad ottobre 2023, e rimane allestita anche per i primi mesi del 2024, visitabile nelle date via via comunicate.
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I mosaici ospitati presso la Chiesa di Nostra Signora del Cadore sono nati per caso, da un cumulo di ghiaia all’esterno dell’Ex Colonia Eni di Borca, durante una Residenza nell’estate 2023.
I sassi sono stati raccolti e lavati, i loro colori e le loro forme hanno dato corpo alle immagini fissate nel cemento. Immagini che riproducono, in scala, i disegni nati da una serie di osservazioni del paesaggio che si sviluppa tra la colonia, il villaggio Eni e il paese di Borca di Cadore, in cui gli artisti si sono spostati a piedi, passeggiando e osservando le cose in movimento.
Come una danza, questi disegni preparatori, realizzati su dei semplici taccuini, sono registrati sulla carta dal vero, senza guardare il foglio ma solamente il soggetto.
Questa modalità di trascrizione dalla realtà: l’eliminazione del rapporto tra artefice e artefatto, la messa in discussione dello statuto di autore e la voluta disattenzione nei confronti del supporto su cui si scrive, sono un tentativo di eliminare la mediazione; tentare di vedere le cose e registrarle direttamente, come uno stenografo, sulla carta.
Il lavoro dei due artisti si potrebbe leggere come un tentativo di mettere in atto il principio di immediatezza di Aristotele, ripreso da Eckhart nel XIV secolo: se non vi fosse mediazione si vedrebbe una formica in cielo“. Aristotele in De Anima (2: 419a.15) dice che l’occhio potrebbe percepire una formica nel cielo, se non vi fosse interposto alcun elemento intermedio, così se non vi fosse alcuna intermediazione tra Dio e l’anima, essa vedrebbe senz’altro Dio. Questo passaggio significa che per raggiungere la verità bisogna necessariamente spogliare la propria anima da tutto ciò che è superfluo: con questo spirito gli artisti si pongono in dialogo e in relazione con le cose rinunciando alla mediazione del proprio Io per farsi unità con le cose stesse.
Ciò che sta alla base della pratica del disegno, per gli artisti, è proprio questo vedere senza vedere, osservare le cose con occhi aperti e chiusi al contempo: il disegno quindi, attraverso questo semplice esercizio, produce immagini senza immagini, genera così un archivio di segni e linee, riprese direttamente dagli andamenti e dai movimenti del paesaggio, che è continuamente trascritto e ritrascritto in simboli.
Si forma in questo modo un alfabeto che ci racconta una storia del paesaggio e delle cose che lo generano e rigenerano continuamente.
In questo senso, la riproduzione dei disegni mediante mosaico diventa una metafora del paesaggio: un infinito insieme di tessere (di patch) in cui non c’è più differenza tra grande e piccolo; in cui il grande dipende dal piccolo e il piccolo dal grande. Per dirlo con le parole di Anna Lowenhaupt Tsing, che definisce il paesaggio globale come un insieme di patch, vale a dire un mosaico di assemblaggi aperti di modi di vivere intrecciati tra loro, in cui ciascuno si apre in un ulteriore mosaico di ritmi temporali e archi spaziali, dove precarietà e collaborazione diventano l’unica strada percorribile per la sopravvivenza, gli assemblaggi si coalizzano, cambiano e si dissolvono: è questa la storia.
Il disegno, per Bonenti e De Meo, è anche un modo per registrare questa polifonia del paesaggio, attraverso una perturbazione dell’atto stesso del guardare: è proprio questa perturbazione (evi- tare di guardare il foglio) che conduce a catturare l’eterogeneità, un punto di vista chiave per comprendere la realtà.
L’assemblaggio eterogeneo sta alla base della tecnica del mosaico, in questo caso suggerito e realizzato interamente con materiali trovati sul luogo, nella Ex colonia, e in continuo dialogo con i materiali architettonici utilizzati da Edoardo Gellner per la costruzione del complesso in cui gli artisti hanno operato. Il cemento grigio, il pietrisco con i suoi colori naturali legati alla montagna e i formati ripresi dalle misure quadrate delle innumerevoli finestrelle della colonia.
Anche la scelta del luogo in cui esporre il progetto è stata quanto mai inattesa, partita da una visione di Gianluca D’Inca Levis, che ha saputo cogliere il rapporto tra una ricerca legata ad una spiritualità insita nel binomio uomo-natura, che tra questi due enti genera un dialogo fatto di segni, sememi e tracce visive, sintetizzate da una modalità grafica a metà strada tra meditazione e ricerca scientifica. Esporre questo alfabeto, che comprende disegni di foglie, pigne, funghi, piccoli animali, fiori e piante spontanee, andamenti di rami, percorsi di bruchi su una foglia…, all’interno della Chiesa di Nostra Signora del Cadore, progettata da Edoardo Gellner e Carlo Scarpa alla fine degli anni ‘50, è a sua volta un dialogo che porta in sé il principio della collaborazione e della coralità: due artisti, due architetti, spiritualità e scienza, cemento e sassolini, natura e uomo, occhi aperti e chiusi… tutto immerso indistintamente tra le polifonie del paesaggio in movimento.